venerdì 24 luglio 2009

Itaca

La fiesta de bienvenido che ero in procinto di organizzare nei giardini del rigoglioso Parque de Maria Luisa poco più di anno fa, dopo essermi trasferito nel mese di marzo -mentre fervevano i preparativi per lo spettacolare rito collettivo della Semana Santa- nella preciosa y encantadora Siviglia, ma che non feci mai, è il simbolo più evidente di una necessità inconscia e intrinseca di proseguire la mia peregrinazione (nella foto un paso, cioè una delle varie processioni religiose molte delle quali celebrate in ore notturne, lungo la via principale del centro cittadino, Avenida de la Constitución).

Sinceramente, appena preso atto dell'insuccesso dei miei progetti lavorativi e sentimentali e dopo per diversi mesi ancora, mi ostinavo a pensare che questo momento di rottura fosse la naturale conclusione del mio personale cammino di esplorazione del mondo. Presi a ispirazione un racconto del poeta spagnolo Manuel Machado, incluso nella sua antologia di scritti dedicati alla capitale andalusa, Cualquier dia en Sevilla: quello nel quale mi immedesimai aveva un triste epilogo in cui lo scrittore commentava la decisione di un uomo, stanco di subire soprusi dal proprio datore di lavoro, di andare a cercare fortuna altrove. L'allontanamento da Siviglia del personaggio era accompagnato da parole lapidarie di Machado, un epitaffio che sembrava scritto apposta per me: non sapeva la pazzia che stava facendo andandosene per sempre da Siviglia.

Questa meraviglia di città,
alla quale gli antichi diedero il nome anch'esso languido e seduttore, di Sibilia (i romani la chiamavano Hispalis, quasi che essa simboleggiasse con la sua bellezza tutta la penisola iberica), mi aveva stregato. Siviglia è in effetti un crocevia tra est e ovest, tra nord e sud, un ponte che collega Europa ad Africa e America e dove giungono attaverso il Meditteraneo anche i sentori del vicino Oriente. Un luogo che ti inebria con i suoi profumi di fiori d'arancio, di incenso, di limoni, un tempio alchemico e una strada affollata di gente, un amalgama di sacro e profano, un posto che quando esci di notte non sai davvero cosa può succederti e dove e con chi finirai la serata.

Siviglia tiene todo, mi disse Josè Luis, detto Selu, un coetaneo -che per l'unico ed esclusivo privilegio di esserci nato, a Siviglia, ne aveva viste chissà quante più di me-; quando una città ti offre tanto te enseña a ser paciente: suggellò così la sua ode smisurata a la sua ciudad ideal.
Aggiungo ora che in un posto del genere ho appreso pure, per la prima volta, a compartir y a respetar a los demás. Quando si vive in un contesto in cui è invece un numero ridotto di persone a disporre del poco che si ha, in cui il divertimento è concepito per soddisfare gruppi ristretti mentre agli altri viene non dico negato ma deliberatamente limitato, risulta chiaro come la tendenza a condividere e a rispettare venga spesso meno.
Mentre chi ha vissuto a Siviglia sa che, pur se la sfortuna può accanirsi contro di te, anche se le cose sembrano essere tragiche e ti senti sconfitto, prima o poi ti capiterà sicuramente qualcosa di bello. Malgrado ciò, non potevo permettermi di rimanere oltre senza un lavoro fisso. Gli eccessi notturni, d'altronde, sono inversamente proporzionali agli impegni lavorativi. E altri problemi mai risolti mi aspettavano da tempo in Italia. Con un atto di estremo raziocinio e di forza su me stesso, trovai il coraggio per separarmi da Siviglia.

Accettai pure, passivamente, la diagnosi di Machado, che ai miei occhi risultava un'accusa schiacciante di masochismo e mi persuasi che il mio viaggio, interrotto bruscamente, non sarebbe mai più ripreso (anche se mi consolava almeno il pensiero sottaciuto che a Madrid e Barcellona intravedevo ancora delle strade aperte per me). La cerimonia di congedo, la sera prima della ripartenza per Roma, si consacrò in compagnia di due amici decisamente simpatici in un tipico ristorante sivigliano del barrio de Triana -un quartiere popolare che a molti ricorda Trastevere-, il Sol y Sombra, dove non mi trattenni dal mangiare carne di toro, frittura di pesce e altre prelibatezze della cucina locale, consapevole che non avrei mai più calcato las calles sevillanas come abitante del luogo, se non, nel futuro, regredendo al rango di turista.
Il ritorno mi avrebbe infatti ricondotto, volente o nolente, verso "casa".

Ma il seguito della storia non è affatto andato come previsto: il tragitto di ritorno, che pensavo condurmi a una sorta di prigione dorata, mi ha riportato al contrario in una realtà che conoscevo già, ma in cui mi sono calato come uno speleologo in un dedalo di caverne, equipaggiato di una luce interiore che ne illuminava per la prima volta gli anfratti più oscuri, fino ad allora rimasti in penombra, penetrandone le viscere che d'improvviso, tutto d'un colpo, distinguevo nitidamente con uno sguardo rapido e incisivo. Non è stato andandomene, ma solo tornando, che ho finalmente capito da dove venissi. Vengo infatti dalla valle di Terni, in Umbria: anch'essa a suo tempo fu decantata da grandi viaggiatori, i giovani benestanti e colti nordeuropei che affrontavano l'avventura romantica del Grand Tour a scopo formativo. Un animo sensibile come quello di Lord Byron riconobbe la terra in cui sono cresciuto come il perduto paradiso terrestre. Anche le persone a cui ho voluto farla conoscere sono rimaste impressionate dall'amenità dei suoi paesaggi, dalla semplicità e ospitalità della sua gente, dalla bellezza inaudita dei suoi boschi, verdi brillanti come smeraldi. Oggi è un luogo senza connotati precisi, una comunità di persone dall'identità incerta, che si muove smarrita e incapace di ascoltare i consigli degli adulti, come un bambino che si è perso nelle strade di una metropoli, in mezzo al traffico di mezzi moderni e a sciami di persone che si muovono a una velocità più elevata. Un relitto immerso in una baraonda di rumori contemporanei che attutiscono, anzi coprono, i deboli echi che ancora si possono udire negli anfratti reconditi delle campagne, gelosi custodi degli splendori del passato (nella foto: la Cascata delle Marmore, nelle vicinanze di Terni).


Non mi ritengo incapace di vivere secondo i frenetici ritmi occidentali imposti dal progresso tecnologico, che anzi sfrutto per comunicare, pertanto non poteva certo stordirmi tornare a Terni. Soprattutto dopo aver metabolizzato le forti sensazioni accumulate viaggiando, compresi i precedenti soggiorni, brevi ma intensi, in un campus multietnico sulla costa del Galles e nella Babilionia londinese che attraversavo passando per Victoria Station, Trafalguar Square, Piccadilly Circus e Regent Street fino a Soho.
Semmai avrebbe potuto anestetizzarmi, e purtroppo così è stato in effetti.
Non sono stato subito capace di guardare con occhio distaccato il carrozzone bislacco della mia città...un posto in cui quando esco un pomeriggio qualunque per fare una camminata, passeggiando da piazza Tacito per il Corso fino a piazza Europa e poi in via Roma vedo un'altissima percentuale della popolazione di tutte le razze e i colori -moltissimi dell'Europa dell'est, altrettanti del nord Africa, indiani ed altri asiatici e non pochi sudamericani-, mentre quando la sera vado con gli amici di sempre nella zona dei locali notturni, dei suddetti extracomunitari non ne vedo, lo giuro, neanche l'ombra.


A Siviglia, il quartiere Alfalfa, comunemente detto el barrio de los giris o più sinteticamente Girilandia (giri=stranieri) è con molta probabilità uno dei quartieri più belli della città insieme al barrio de Santa Cruz, a la Macarena e a Triana, in più sentendo le persone che ho frequentato (e anche nella mia opinione per quanto possa contare) quello che si contende con la Alameda e El Arenal la palma di zona più divertente della città. Ritornato dal mio lungo viaggio, mi chiesi finalmente per la prima volta perchè tanta differenza, perchè in Italia vedevo ancora tanta ghettizzazione e non soltanto nella remota provincia umbra, perchè ciò che lì è normalità qui è del tutto irrealizzabile se non proprio inconcepibile. Poco a poco, però, correvo il rischio di assuefarmi nuovamente al clima soporifero e un pò ipocrita e mistificatore di Terni, percependo inoltre che mi andavo dimenticando di queste ed altre sensazioni che mi avevano procurato tanta euforia da farmi sentire felice più che mai lontano dall' "opprimente borgo natio", parafrasando l'immenso Giacomo Leopardi.

Ma per effetto di questi ed altri divari -tanto evidenti, anzi così macroscopici da non poter non essere osservati-, gradualmente, come nei processi ottici attraverso cui l'occhio si abitua al buio e riesce poi a squarciare il velo delle tenebre, è riafforata in me la vista acuta e penetrante che permette di mettere a fuoco gli oggetti lontani: è stato come avere indossato degli occhiali, che a differenza di quelli resi famosi da Kant che secondo il filosofo tedesco non lasciano che ogni individuo osservi la realtà pura, ma solo una sua rappresentazione distorta perchè influenzata dalla nostra sensibilità (la vista è un senso), mi hanno permesso di vedere le cose distanti migliaia di chilometri, quindi reali ma non visibili a occhio nudo, oggettive e al tempo stesso non soggette al rischio, connesso alle disfunzioni sensoriali, di vedere miraggi.

La percezione del lontano, del recondito, è la volontà di rimettersi in marcia. Quando un alpinista riprende la propria ascesa, mira verso il traguardo che si è imposto: così è successo a me. Non voglio dire che si sia trattato di un'esigenza consapevolmente maturata, ma piuttosto di un involontario, benchè del tutto inderogabile, bisogno di proseguire il periplo in cui mi ero avventurato. Oppure è bastato un momentario lampo di ragione a rischiare l'oceano tempestoso di stimoli irrazionali in cui mi ero tuffato due estati fa, nuotando prima con vigore e poi annaspando con disperazione alla ricerca di un appiglio, un porto sicuro.

In ogni caso, la voglia e l'entusiasmo di ripartire deve derivare in qualche modo dal fatto che per tornare non ho semplicemente compiuto uno spostamento inverso a quello di andata: per percorrere l'identica distanza in direzione contraria, infatti, ho anche attraversato la dimensione temporale, non soltanto quella spaziale come siamo ingenuamente portati a credere.
La teoria della relatività di Einstein ha svelato all'umanità incredula e paurosa dell'ignoto, l'inscindibilità di spazio e tempo, che rende impossibile fare ritorno esattamente allo stesso punto con le stesse caratteristiche biologiche che ci contraddstinguevano nell'attimo in cui siamo partiti. Così, mi permetto di aggiungere io senza spiegarlo scientificamente dal momento che non ho le competenze adatte, il nostro luogo di partenza -pur mantenendo le stesse coordinate geografiche- di certo non conserverà mai le medesime peculiarità ambientali, sociali e culturali di origine.
Così che fare rientro in un luogo non implica smettere di viaggiare, né tantomeno può significare -anche solo allegoricamente-, ritornare indietro nel tempo. In ogni caso, infatti, a prescindere dalla traiettoria che seguiamo, ci spostiamo in avanti nella linea dello spazio-tempo.

L'Odissea a cui mi riferisco a riguardo del mio percorso individuale, peraltro, non può essere interpretata alla stregua di un qualunque altro viaggio: è un moto perpetuo non solo del corpo, altresì e soprattutto della coscienza e dell'inconscio, una scalata a una montagna interiore di cui non riesco a vedere la vetta. Il traguardo è una perfetta percezione e comprensione di sé, degli altri, del cosmo e della vita: una cima, dunque, che non potrà mai essere raggiunta, ma che vale comunque la pena cercare di conquistare.

Ma al di là della meta finale che non può che rimanere misteriosa (non a caso l'etimologia di destinazione è la stessa di destino, e anche di ostinazione e fissazione, attività pericolose che non si sa dove conducano), intendo spiegare come concepisco il viaggio di ritorno.
Quando si parte per un posto dove non si è mai stati, si guarda alla mappa, ma quando si parte per ritornare al luogo da cui si proviene si guarda allo specchio. Mi sembra dunque svelato il senso più profondo: è un viaggio innanzitutto nella propria interiorità. Anche Bruce Chatwin affermò che per riflettere gli era necessario muoversi: "pensare camminando". Così viaggiando a ritroso esploriamo l'ignoto dentro noi stessi e gli abissi delle coscienze altrui. Non ci serve bussola perché nei posti a noi noti possiamo affidarci al senso dell'orientamento maturato con l'esperienza. La fiaccola che rischiarerà il sentiero è l'intelletto che abbiamo sviluppato attraverso il confronto con gli altri. Nel viaggio di ritorno in definitiva non è essenziale -anche se non si può escludere a priori- un territorio da perlustrare i cui confini siano delimitati dalla rappresentazione su una carta geografica, né una meta vagheggiata da tempo che finalmente ci apprestiamo a visitare.
Unica condizione che vedo irrinunciabile è chiedersi "perchè stiamo tornando?" e una volta tornati "che ci faccio qui"?
(Italo Calvino, "Le città invisibili": Di una città non si godono le sette o le settantasette meraviglie, ma la risposta che dà a una tua domanda).

Il periodo che ho trascorso forzatamente nei luoghi della mia infanzia mi è servito allora per capire che si viaggia anche rinchiusi in una stanza. Ogni atomo che mi circonda è terreno adatto alle mie ricognizioni e d'altronde è evidente come la visione ravvicinata delle cose sia, da un punto di vista strettamente fisico, un viaggio nel microcosmo. Dunque anche la permanenza in un posto conosciuto può essere vissuta esplorando, alla ricerca. Inoltre, una volta fatto ritorno a casa, si può decidere con cognizione di causa se fermarsi o ripartire. Di nuovo mi viene in mente l'Ulisse errabondo che compare nella Divina Commedia, per nulla appagato dell'approdo a Itaca dopo mille peripezie; al contrario, Dante lo descrive talmente smanioso di conoscenza da riuscire a convincere i suoi compagni di ventura a rimettersi in mare nonostante l'età avanzata (nella foto, La nave di Ulisse, affresco proveniente da Pompei, oggi al British Museum di Londra).




Non sarà allora casualità forse - ne trovo avvisaglie senza dovermi sforzare di cercarle - che l'ultima meta del mondo conosciuto avvistata da Ulisse prima di oltrepassare le colonne d'Ercole fosse proprio Sibilia/Siviglia, la tappa che ha preceduto il mio ritorno a Terni (idealmente la mia Itaca). Chi oltrepassa Siviglia, che per tanti aspetti rappresenta i confini dell'Europa e per secoli è stata considerata ultimo baluardo della civiltà, non può tornare indietro.

Quindi ho trovato il segreto per non smettere di viaggiare ! Oppure il segreto sta nel non accontentarsi mai di ciò che si è visto con i propri occhi, non fermarsi alle apparenze, non pensare che il mondo finisca nel posto più lontano che è dato raggiungere durante una giornata lavorativa i cui obblighi ti costringono a fare rientro nel raggio d'azione consueto che è soltanto di qualche centinaia di kilometri al massimo (nella migliore delle ipotesi). Il viaggio è bramosia, ossessione, sublimazione e catarsi. Il che a mio giudizio non significa amare la solitudine e rifuggere dai legami, ma piuttosto è propensione innata alla varietà e per i rapporti liberi da vincoli, apertura all'estraneo, passione per la vita (Hermann Hesse, "Il vagabondo": Noi viandanti siamo tutti così. La nostra smania di vagabondaggio e di vita errabonda è in gran parte amore, erotismo).




Il mio ritorno a casa, in definitiva, non lo interpreto più come il termine del cammino: il viaggio della vita, una volta intrapreso, non si interrompe mai, nemmeno riprendendo abitudini di vita stanziale.

I gitani spagnoli, ormai stabilitisi da secoli nella penisola iberica, rimangono infatti pur sempre nomadi, nei costumi e nell'animo. Sono proprio i gitani spagnoli che, per riprendere le parole della lucida analisi di Hesse, con la loro "smania di vita errabonda" hanno dato vita alla forma più estremizzata e compulsiva di messinscena della passione amorosa ed erotica -in musica, canto e ballo- che è conosciuta universalmente con il nome di flamenco. Chiunque viva, comprenda e apprezzi nel profondo l'arte del flamenco non per questo è di conseguenza immune dal sentire legami di sentimento; anzi, ho potuto provare sulla mia pelle che li vive, molto probabilmente, con intensità assai maggiore degli altri. Gioendo più del normale quando questi sentimenti procurano piacere e drammatizzando in maniera eccessiva quando sopravanzano i dubbi e le paure che per loro natura le relazioni umane tra individui appartenenti a mondi diversi, inevitabilmente, attirano.
Gli incontri che feci a Siviglia sono stati un'autentica rivelazione. Sono assolutamente sicuro che in tutta la mia vita non provai mai tanta eccitazione euristica come quando feci la scoperta del bar dove, come cliente, conobbi la donna di cui mi innamorai, e dove esattamente un anno dopo mi ritrovai a lavorare come cameriere. La voglia di concedersi si amplifica e diventa esponenziale quando di fronte ci si ritrova un altro essere umano che si concede apertamente, senza nessun pregiudizio. Davanti a chi si fa di me un'idea preconcetta, o a chi non se la vuole fare per niente, io non avanzerò invece di un centimetro mantenendo la stessa identica distanza che egli assume. I ponti uniscono due rive, e si costruiscono gettando le fondamenta da entrambe le sponde.

Ogni persona che voglia viaggiare su questo ponte immaginario, il che non implica che mi accompagni e mi stia vicino fisicamente, sarà ben accetto. Ma non è detto che i nuovi compagni e compagne di viaggio che incontrerò lungo il cammino rimangano soddisfatti della compagnia: presto o tardi so già che perderò grandissima parte di loro. Qualcuno potrò decidere di tentare di rivederlo, di altri conserverò solo il ricordo, bello o brutto che sia. In generale, chi vorrà viaggiare con me, basterà che mi dia un appuntamento e se per raggiungere il posto prestabilito tutti e due avremo viaggiato, in senso reale e/o metaforico, allora sarà come aver fatto una parte di viaggio insieme.

Il mio cammino, in ogni caso, proseguirà anche se rimarrò da solo a percorrerlo.

P.S. Questo post è dedicato a tutti coloro che ho conosciuto a Siviglia. Adiós, chicos.




"Viaggiatori" citati:
George Byron
Giacomo Leopardi
Immanuel Kant
Albert Einstein
Italo Calvino
Popolo Gitano
Hermann Hesse